Una delle cause principali del lavoro nero in Sicilia o comunque nelle aree dove l’etnia Siciliana costituisce la maggior parte della popolazione (Calabria centromeridionale, Cilento e Salento) è il fatto che il sistema paese della Repubblica Italiana è confezionato a misura delle esigenze Padane.
In altre parole, i costi fissi amministrativi, tributari e burocratici sopportabili da un’impresa Padana sono del tutto insopportabili dalle imprese Siciliane, le quali di conseguenza partono con un deficit di competitività, che cercano di recuperare con tutti i mezzi possibili, a volte purtroppo anche quelli illegali.
Un sistema siffatto è ovviamente sbagliato, e bisogno purtroppo aggiungere che spesso lo Stato Italiano non riesce nemmeno a controllarlo e regolarlo adeguatamente, e quello che viene regolato viene controllato spesso completamente a chiazze, anche per la penuria di uomini, mezzi, strumenti e formazione delle forze all'uopo preposte, e si finisce quindi per colpire a casaccio, un giorno a questo e l'altro giorno all'altro, e questo implica che in realtà alla fine il sistema favorisce le imprese che si comportano peggio e che riescono a non farsi beccare e quindi a farla franca, mentre quelle che si comportano legalmente in Sicilia sono doppiamente svantaggiate.
Se lo Stato riuscisse a controllare a tappeto tutte le imprese Siciliane, il risultato immediato sarebbe però un incremento della disoccupazione e della popolazione inattiva, appunto perché le imprese Siciliane sono generalmente sfavorite in partenza rispetto ai concorrenti nel mercato interno alla Repubblica Italiana (non parliamo poi nel mercato esterno!).
L’unica soluzione possibile è quella di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle imprese Siciliane di poter competere ad armi pari.
Questo necessita sia di enormi interventi infrastrutturali (ferrovie, aeroporti, strade, porti, ponti e quant'altro), sia di interventi sul mercato del lavoro, sul costo del lavoro, sulla pressione fiscale, sulla burocrazia, sui costi amministrativi e soprattutto, e principalmente, nell’affermare finalmente e compiutamente il dominio della legge (condizione questa sine qua non per poter attrarre investimenti stranieri significativi con una certa costanza).
Per dare un po di numeri, si possono fare degli esempi pratici per paragonare i costi del mercato del lavoro Siciliano con quelli di imprese operanti in altri sistemi paese, ad esempio con i costi del mercato del lavoro Britannico, che mostrano chiaramente lo svantaggio competitivo che le imprese Siciliane devono sopportare.
Nel Regno Unito vi è un minimo salariale nazionale di €6.65 orari lordi al cambio odierno.
Se si lavora al minimo salariale 37 ore e mezza a settimana, in un anno il costo per il datore di lavoro è di €13778 tutto compreso, dei quali come minimo (potrebbero essere di più se uno ha diritto a deduzioni per i figli o in altri casi) finiranno nelle tasche del lavoratore €11146 netti (quasi €929 al mese), cioé circa l’81% del costo del lavoro, in altre parole il cuneo fiscale e contributivo è soltanto il 19%.
In Sicilia, per fare arrivare legalmente 11 mila Euro nelle tasche dei propri dipendenti, non mi stupirei se il datore di lavoro possa arrivare a pagare anche 15-20 mila Euro (in realtà dipende da n mila cose).
Se nel Regno Unito uno lavora part-time o se non lavora tutto l’anno o se è giovane (under 22), ovviamente potrebbe guadagnare meno, ed incredibilmente, se paragonata alla situazione Siciliana, se un Britannico guadagna fino a €6554 Euro annui, il datore di lavoro non paga un copeco di tasse o contributi, cioé il costo del lavoro tutto compreso è nullo, 0%, ed in tasca del lavoratore finisce netto il 100% del costo del lavoro!
Adottare un regime simile in Sicilia significherebbe che chiunque guadagnasse fino a €550 al mese sarebbe praticamente in regola in ogni caso!
Un altro esempio è possibile farlo per i professionisti: mentre in Sicilia, seguendo la legislazione Italiana, vi è la possibilità di aderire ad un regime forfettario per qualche anno se si ha un giro d’affari inferiore a poche decine di migliaia di Euro, che per un professionista è banalmente al di sotto della sussistenza, nel Regno Unito un professionista, ma anche un piccolo commerciante o comunque chiunque svolga piccole attività di mera sussistenza, non è tenuto ad aprirsi la partita IVA se ha un giro d’affari inferiore agli 80 mila Euro annui.
80 mila Euro annui. Altro che sguinzagliare le forze dell'ordine dietro a chi vende qualche carabattola su ebay senza pagare tasse e minimi contributivi.
In altre parole, i costi fissi amministrativi, tributari e burocratici sopportabili da un’impresa Padana sono del tutto insopportabili dalle imprese Siciliane, le quali di conseguenza partono con un deficit di competitività, che cercano di recuperare con tutti i mezzi possibili, a volte purtroppo anche quelli illegali.
Un sistema siffatto è ovviamente sbagliato, e bisogno purtroppo aggiungere che spesso lo Stato Italiano non riesce nemmeno a controllarlo e regolarlo adeguatamente, e quello che viene regolato viene controllato spesso completamente a chiazze, anche per la penuria di uomini, mezzi, strumenti e formazione delle forze all'uopo preposte, e si finisce quindi per colpire a casaccio, un giorno a questo e l'altro giorno all'altro, e questo implica che in realtà alla fine il sistema favorisce le imprese che si comportano peggio e che riescono a non farsi beccare e quindi a farla franca, mentre quelle che si comportano legalmente in Sicilia sono doppiamente svantaggiate.
Se lo Stato riuscisse a controllare a tappeto tutte le imprese Siciliane, il risultato immediato sarebbe però un incremento della disoccupazione e della popolazione inattiva, appunto perché le imprese Siciliane sono generalmente sfavorite in partenza rispetto ai concorrenti nel mercato interno alla Repubblica Italiana (non parliamo poi nel mercato esterno!).
L’unica soluzione possibile è quella di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle imprese Siciliane di poter competere ad armi pari.
Questo necessita sia di enormi interventi infrastrutturali (ferrovie, aeroporti, strade, porti, ponti e quant'altro), sia di interventi sul mercato del lavoro, sul costo del lavoro, sulla pressione fiscale, sulla burocrazia, sui costi amministrativi e soprattutto, e principalmente, nell’affermare finalmente e compiutamente il dominio della legge (condizione questa sine qua non per poter attrarre investimenti stranieri significativi con una certa costanza).
Per dare un po di numeri, si possono fare degli esempi pratici per paragonare i costi del mercato del lavoro Siciliano con quelli di imprese operanti in altri sistemi paese, ad esempio con i costi del mercato del lavoro Britannico, che mostrano chiaramente lo svantaggio competitivo che le imprese Siciliane devono sopportare.
Nel Regno Unito vi è un minimo salariale nazionale di €6.65 orari lordi al cambio odierno.
Se si lavora al minimo salariale 37 ore e mezza a settimana, in un anno il costo per il datore di lavoro è di €13778 tutto compreso, dei quali come minimo (potrebbero essere di più se uno ha diritto a deduzioni per i figli o in altri casi) finiranno nelle tasche del lavoratore €11146 netti (quasi €929 al mese), cioé circa l’81% del costo del lavoro, in altre parole il cuneo fiscale e contributivo è soltanto il 19%.
In Sicilia, per fare arrivare legalmente 11 mila Euro nelle tasche dei propri dipendenti, non mi stupirei se il datore di lavoro possa arrivare a pagare anche 15-20 mila Euro (in realtà dipende da n mila cose).
Se nel Regno Unito uno lavora part-time o se non lavora tutto l’anno o se è giovane (under 22), ovviamente potrebbe guadagnare meno, ed incredibilmente, se paragonata alla situazione Siciliana, se un Britannico guadagna fino a €6554 Euro annui, il datore di lavoro non paga un copeco di tasse o contributi, cioé il costo del lavoro tutto compreso è nullo, 0%, ed in tasca del lavoratore finisce netto il 100% del costo del lavoro!
Adottare un regime simile in Sicilia significherebbe che chiunque guadagnasse fino a €550 al mese sarebbe praticamente in regola in ogni caso!
Un altro esempio è possibile farlo per i professionisti: mentre in Sicilia, seguendo la legislazione Italiana, vi è la possibilità di aderire ad un regime forfettario per qualche anno se si ha un giro d’affari inferiore a poche decine di migliaia di Euro, che per un professionista è banalmente al di sotto della sussistenza, nel Regno Unito un professionista, ma anche un piccolo commerciante o comunque chiunque svolga piccole attività di mera sussistenza, non è tenuto ad aprirsi la partita IVA se ha un giro d’affari inferiore agli 80 mila Euro annui.
80 mila Euro annui. Altro che sguinzagliare le forze dell'ordine dietro a chi vende qualche carabattola su ebay senza pagare tasse e minimi contributivi.